domenica 30 luglio 2017

Se l'amniocentesi diventa "selezione della razza"


Tra le scempiaggini e le inutili polemiche diffuse dai social network ogni tanto compare la segnalazione di un argomento di peso. 

È il caso di un post lanciato nei giorni scorsi, un video in cui una ragazzina Down segnala una situazione inquietante, totalmente ignorata dalla grande comunicazione. 
Racconta che in Islanda da 5 anni non nascono bambini con la trisomia 21. 
Si potrebbe credere che si tratti di una buona notizia. Non è così. 
La verità è che i bambini cui è diagnosticata attraverso l'amniocentesi la sindrome in questione vengono abortiti. 
Accade anche altrove. 
Nei prossimi dieci anni probabilmente la Danimarca raggiungerà il primato islandese, mentre Spagna, Stati Uniti e Regno Unito già ora hanno un tasso di aborti di bambini Down del 90%. 
Il messaggio della ragazzina è brutale perché ricorda che i nazisti eliminarono 200 mila handicappati, tra i quali moltissimi Down. 
E per questo equipara la condizione attuale con la volontà nazista di eliminare i bambini «imperfetti». 
Si starebbe dunque operando una selezione della razza anche nei nostri giorni. La ragazza invoca a nome dei bambini non nati il loro diritto di vivere («Noi siamo persone!») e chiede d'abolire l'amniocentesi perché a suo avviso è un esame di eugenetica. 
Qualche mese fa in concomitanza con la Giornata mondiale dei Down (21 marzo) anche Famiglia Cristiana ha affrontato l'argomento raccontando che in Francia è stata vietata la diffusione di un video in cui comparivano ragazzi Down che esprimevano la loro gioia di vivere. 
Il video è stato di fatto censurato perché a dire dei giudici francesi disturbava le donne in gravidanza o quelle che avevano già abortito un bambino con la trisomia 21. 
La questione è complessa e drammatica. 
Non si tratta di mettere in discussione la legge che regola l'aborto e consente di decidere di interrompere la gravidanza in merito alla quale ciascuno può essere d'accordo o meno. 
Qui si segnala un problema ancora più profondo: i genitori che dopo l'amniocentesi decidono di abortire, non sono quelli che non vogliono il figlio. Non vogliono il figlio «anormale». 
Si potrebbe pensare che desiderino risparmiare al figlio una vita difficile, piena di ostacoli ma sorge anche il dubbio che vogliano risparmiare a se stessi il peso di questo figlio che sarà bisognoso di cure particolari o potrà generare in loro una velata vergogna per il figlio «diverso». 
È curioso che a ciò si accompagnino cori di indignate proteste se il bambino handicappato è oggetto di insulti, violenze o di bullismo. 
È curioso che ci sia una Giornata Mondiale dedicata ai Down mentre si può prevedere che nel giro di pochi anni questi soggetti non ci saranno più. 
C'è dunque differenza di valore tra il bambino nato Down e il bambino che lo sarebbe stato: il primo è giustamente amato, valorizzato. 
Deve poter godere di tutte le opportunità della vita «normale». 
Deve essere rispettato e inserito nella società non meno degli altri. Il secondo semplicemente non nasce. 

sabato 29 luglio 2017

"Facciamo attenzione I vaccini non sono acqua fresca"



Vogliamo precisare che questo piccolo articolo vuole essere un contributo alla discussione sui vaccini è non una presa di posizione al riguardo, e, l'obbligatorietà imposta di legge non aiuta a comprendere la materia in oggetto.

Il Dott. Dario Miedico, specializzato in medicina legale e radiato dall'Ordine dei Medici di Milano, pur dichiarandosi di non essere un medico novax, afferma che la materia dei vaccini, va affrontata facendo un analisi accurata, tenendo conto 

le vaccinazioni sono indiscutibilmente positive per un gran numero di persone, ma proprio per la loro efficacia, come qualsiasi altro farmaco, possono anche creare reazioni avverse e danni. Pertanto non accetta che questi aspetti vengano minimizzati. 

Afferma di essere contro l'obbligatorietà, perchè le vaccinazioni di massa devono essere fatte con attenzione. 

Secondo il Dott. Miedico, la tutela della salute dei bambini spetta ai genitori, che vanno informati per scegliere liberamente. 
Anche se studi scientifici dicono che non c'è nessun legame tra autismo e vaccini, la Cassazione non dice assolutamente che i vaccini non provocano autismo, ma che in quel caso specifico, ha confermato le sentenze precedenti che sostenevano che non vi è stato alcun legame. 
Sarebbe comunque altrettanto stupido dire che tutti i casi di autismo infantile sono causati dai vaccini. 
Il punto è che la scienza medica, grazie a statistiche e epidemiologia, non può negare un fatto raro, ma che esiste. 
L'autismo poi rappresenta un campo ampio, nebuloso per certi aspetti, soprattutto per quanto riguarda la sua eziologia che è multifattoriale: infatti si parla di sindrome dello spettro autistico. 
La scienza è molto più aperta di quanto non lo sia il ministero della Salute. 
Secondo le sue esperienze, un danno da vaccino colto precocemente si può risolvere bloccando subito le vaccinazioni successive. 
Non sono acqua fresca, possono provocare lesioni. 
Ci sono casi di bimbi che fanno il richiamo e peggiorano. 

Negandolo si porta a una perdita di fiducia nei confronti della categoria dei medici. 

SI PREGA CLICCARE IL SEGUENTE LINK:
http://controlebarriere.blogspot.it/2017/01/i-soci-dell-associazionecontro-le.html


giovedì 27 luglio 2017

Un test degli occhi per diagnosticare l'autismo



Sviluppato un nuovo strumento che può aiutare i medici a identificare un sottogruppo di soggetti affetti da disturbi dello spettro autistico (ASD). 
Un test dell’occhio rapido e non invasivo.


Diagnosticare l’autismo e i disturbi dello spettro autistico (ASD) con un semplice esame dell’occhio. 

Ecco quanto si prefigge il nuovo test sviluppato dai ricercatori dell’University of Rochester Medical Center Del Monte Neuroscience Institute, con uno studio che è stato presentato sulle pagine della rivista scientifica European Journal of Neuroscience. 
Il nuovo strumento permetterà ai medici di identificare in particolare un sottogruppo di soggetti affetti da disturbo dello spettro autistico. 
L’ASD è contraddistinto da una vasta gamma di sintomi che possono variare in severità da persona a persona. 
È proprio questa imprevedibilità a rappresentare una sfida per la diagnosi. 

Cosa che rende complicato anche decidere quale trattamento prescrivere caso per caso. Per questi motivi è diventa indispensabile poter identificare il fenotipo specifico del disturbo al fine di offrire una cura adeguata.


Il nuovo test.
Lo strumento diagnostico ideato dai ricercatori consiste nel misurare i movimenti rapidi degli occhi. 

Questi possono indicare la presenza di eventuali deficit in un’area del cervello che svolge un ruolo importante nello sviluppo emotivo e sociale. 

«Questi risultati – ha spiegato il dott. John Foxe, coautore dello studio – si basano su un crescente campo di ricerca che dimostra che il movimento degli occhi potrebbe servire da finestra di una parte del cervello che svolge un ruolo in un certo numero di disturbi neurologici e di sviluppo, come l’autismo».


L’importanza del movimento oculare.
I movimenti degli occhi hanno un ruolo essenziale. 

E proprio questi con i meccanismi con cui il cervello controlla ed elabora ciò che scegliamo di guardare è stato per decenni il principale focus dei ricercatori di neuroscienze. 
I movimenti rapidi dell’occhio, detti ‘saccadi’, che compiamo quando spostiamo l’attenzione da un oggetto all'altro, sono la base per osservare, navigare, capire e interagire con il mondo che ci circonda. 
Negli individui sani, la linea di visuale è reindirizzata in modo rapido, preciso e accurato, da un punto di interesse all'altro
Per la cui la saccade è corretta. 
Nel cervelletto, l’area che controlla anche le saccadi, è possibile rinvenire i segni di una compromissione nelle funzioni emozionali e cognitive. 

Sono sempre più le evidenze scientifiche che suggeriscono come vi sia una alterazione della struttura del cervelletto in un sottogruppo di persone con ASD.


Lo studio.
In una serie di esperimenti, gli scienziati hanno osservato i movimenti degli occhi (saccadi) di un gruppo di individui con disturbo dello spettro autistico. 

I partecipanti allo studio sono stati invitati a seguire un bersaglio visivo che appariva in diverse posizioni su uno schermo. 
L’esperimento era stato progettato in modo che diverse volte spingesse i partecipanti a ‘superare’ l’obiettivo previsto. 
Si è già osservato come negli individui sani il cervello regoli correttamente i movimenti degli occhi quando il compito viene ripetuto. 

Al contrario, nei soggetti con ASD i movimenti degli occhi hanno continuato a perdere l’obiettivo, il che suggerisce che i controlli del motore sensoriale nel cervelletto, responsabile del movimento degli occhi, sono stati compromessi. L’incapacità del cervello di regolare l’ampiezza del movimento degli occhi non può essere solo un indicatore della disfunzione del cervelletto, ma può anche aiutare a spiegare i deficit di comunicazione e di interazione sociale che sperimentano molte delle persone con ASD.

«Questi risultati – sottolinea il prof. Edward Freedman, altro autore dello studio – suggeriscono che valutare la capacità delle persone di adattare le ampiezze della saccade è un modo per determinare se questa funzione del cervelletto è alterata nei casi di ASD. Se questi deficit risultano essere un risultato coerente in un sottogruppo di bambini con ASD, ciò aumenta la possibilità che le misure di adattamento della saccade possano essere utili come metodo per individuare in anticipo questo disturbo».

domenica 23 luglio 2017

Creato l'encefalofono, strumento musicale che si suona col pensiero




Senza mani, basta il pensiero. 

Un team di scienziati ha inventato uno strumento musicale che si suona con la forza della mente. 
Gli esperti lo hanno battezzato "encefalofono" e, spiegano, viene controllato proprio dai pensieri. Le sue caratteristiche sono descritte in un report pubblicato su "Frontiers in Human Neuroscience". 

La speranza dei neurologi che hanno lavorato allo strumento è che possa contribuire a potenziare e riabilitare i pazienti che convivono con disabilità motorie a seguito di ictus, lesioni del midollo spinale, amputazioni o sclerosi laterale amiotrofica.

“L’encefalofono è uno strumento musicale che si controlla con il pensiero, senza movimento”, spiega Thomas Deuel, esperto dello Swedish Medical Center e dell’University of Washington, primo autore del report. 


“Sono musicista e neurologo, e ho visto molti pazienti che suonavano prima dell’ictus o di altre alterazioni motorie e ora non possono più fare musica. Ho pensato che sarebbe stato bello usare uno strumento” basato su interfacce computer-cervello “per consentire loro di riprodurre nuovamente la musica senza bisogno del movimento”.

L’encefalofono raccoglie i segnali cerebrali attraverso una cuffia che poi trasforma i segnali specifici in note musicali. L’invenzione è accoppiata a un sintetizzatore che consente all’utente di creare musica usando un’ampia varietà di suoni strumentali. Deuel ha sviluppato in origine l’encefalofono (che ha un brevetto pendente) nel suo laboratorio indipendente, in collaborazione con Felix Darvas, fisico dell’università di Washington. 


In questo primo report gli autori descrivono le varie tappe e i loro studi iniziali che ne evidenziano la semplicità di utilizzo.

Il lavoro preliminare condotto ha mostrato che un gruppo di 15 adulti sani è stato in grado di ricreare correttamente i toni musicali senza una formazione precedente, da ‘novizi’. 

L’encefalofono può essere controllato attraverso due tipi indipendenti di segnali cerebrali: quelli associati alla corteccia visiva (cioè chiudendo gli occhi) o quelli associati al pensiero del movimento. 

La modalità di controllo dello strumento pensando ai movimenti, riflette l’esperto, può essere la più utile per i pazienti disabili e Deuel prevede di continuare a fare ricerca su questa applicazione.

Ma per ora lo studio condotto dimostra che, almeno per questo piccolo gruppo di utenti novizi, il controllo tramite la chiusura dell’occhio è più preciso. L’encefalofono utilizza un vecchio metodo chiamato elettroencefalografia, che misura i segnali elettrici nel cervello. 


Gli scienziati iniziarono a convertire questi segnali in suoni negli anni ’30 e, successivamente, in musica negli anni ’60. Ma questi metodi erano ancora difficili da controllare e non erano facilmente accessibili a utenti non specializzati.

In collaborazione con il Centro Dxarts, Deuel ha lavorato per rendere l’encefalofono più versatile e facile da usare. 


E continuerà a collaborare con più esperti per migliorarlo ulteriormente. L’esperto prevede di avviare sperimentazioni cliniche entro fine anno anche per capire se lo strumento si rivelerà utile e divertente per i pazienti disabili.

SI PREGA CLICCARE IL SEGUENTE LINK:




sabato 22 luglio 2017

I cani abbattono la solitudine creata dall'handicap




Durante le varie denunce dell'esistenza di barriere architettoniche, che rimangono inascoltate si constata come sia sconfortante e, talvolta, invalidante sia la solitudine che si crea attorno ai diversamente abili, i quali per l’appunto si ritrovano da soli, perdendo chiunque, dai familiari e dagli amici.

Ovviamente alle spalle di questa fuga chiunque cela una motivazione: talvolta essa riguarda l’accettazione della condizione invalidante in cui versa il soggetto da cui si fugge, poiché non si accetta di vederlo in tali difficoltà – in questo caso, a proprio parere, non si denigra la persona sconvolta dall’handicap, ma l’handicap in sé, che ancora non si riesce ad accettare –, spesso la frase proferita da chi agisce in tal modo è “Non riesco a vederlo in questo stato”. Tuttavia, ciò che rischia di trasparire è invece la voglia di fuggire, senza soffermarsi sul fatto che lasciare solo chi già soffre può amplificarne i problemi, che non si riassumono nelle sole barriere architettoniche.


Ma questi sono comportamenti umani, che per fortuna gli animali non hanno. Esiste infatti la pet therapy, in cui l’animale, quasi sempre un cane, affianca nell’arco della sua vita l’invalido per facilitarlo nelle azioni quotidiane, tenendo presente le possibilità del quadrupede. 

Questo per quanto riguarda l’utilità effettiva dell’affiancamento dell’animale; esso diverrà poi fido amico, compagno di giochi, spalla su cui piangere o con cui sfogarsi: perché la solitudine, già trattata in un precedente articolo, è la maggiore sofferenza, in aggiunta al fisico.
L’aspetto emotivo, infatti, ha un grande peso: l’affetto del proprio cane o di un qualsiasi altro animale domestico è in grado di rincuorare e di far dimenticare per un attimo il proprio handicap.
Prendendo in prestito espressioni vicine all’ambito matematico, si potrebbe così esemplificare la questione: BA+H=T, ossia barriere architettoniche e handicap restituiscono come somma la tristezza. Inserendo in questo calcolo il fattore che diminuisce o cancella la tristezza, ossia la C che sta per cani, è possibile riformulare il tutto in questo modo: I+C=F, ossia l’individuo umano in compagnia del cane è in grado di cancellare la solitudine, il che lo conduce a uno stato di felicità.



Una frase, toccante e conclusiva, del film Io & Marley recita:

«Un cane non se ne fa niente di macchine costose, case grandi o vestiti fermati… Un bastone marcio per lui è sufficiente. A un cane non importa se sei ricco o povero, brillante o imbranato, intelligente o stupido… Se gli dai il tuo cuore, lui ti darà il suo. Di quante persone si può dire lo stesso? Quante persone possono farti sentire unico, puro, speciale? Quante persone possono farti sentire… Straordinario?» 
E ciò perché ai cani non interessa se il proprio “amico umano” cammini bene: può essere anche costretto su una sedia a rotelle, è sufficiente che da lì gli venga lanciata una pallina affinché si divertano insieme.
Va sottolineato, poi, che se il cane è bene addestrato può aiutare anche ad aggirare alcuni tipi di barriere architettoniche – come ad esempio si può notare dall'immagine in copertina, poiché anche un semplice pulsante del semaforo risulta irraggiungibile a causa della presenza dei pedali sulla carrozzina.

SI PREGA CLICCARE IL SEGUENTE LINK:

venerdì 21 luglio 2017

Scienza inutile per Charlie?


La vicenda di Charlie Gard, il bimbo di nemmeno un anno al quale i tribunali inglesi e la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, su giudizio dei medici dell’ospedale londinese Great Ormond Street dove è ricoverato, hanno deciso di interrompere gli interventi medici che lo tengono in vita, apre molti interrogativi sul modo in cui la società accoglie le persone che abbiano determinate caratteristiche, considerate “socialmente indesiderabili”.

Pertanto, è doveroso evidenziare i temi principali del documento "L’approccio bioetico alle persone con disabilità", prodotto dal Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino.

Il primo tema riguarda la genitoralità. 
Nel primo Convegno Mondiale su Bioetica e Disabilità, organizzato nel 2000 a Birmingham da DPI Europe (Disabled Peoples’ International), l’Associazione Europea della spina bifida sottolineava che il rapporto tra i genitori e un bambino con una forte limitazione funzionale o una patologia che lo porti alla morte precoce, è qualcosa di profondo, che ha a che vedere con la relazione che si crea al momento della nascita. 
È un rapporto d’amore e allo stesso tempo una responsabilità che i genitori si assumono per proteggere quella vita. 
Il fatto che i tribunali possano decidere al posto dei familiari non è tollerabile. Ma su cosa hanno deciso i tribunali? Su due argomentazioni: la prima che il bambino ha una malattia incurabile e quindi è destinato a morire. 
Il tema riguarderebbe solo diciannove bambini al mondo e quindi gli interventi sanitari risulterebbero inutili, anzi rappresenterebbero una sorta di accanimento terapeutico che farebbe soffrire il bambino stesso. 
Ma cosa sarebbe successo se all'inizio di una malattia mortale oggi curabile – come è accaduto per tante malattie degenerative, si fosse intervenuto in passato per interrompere le cure e la ricerca su quella patologia? 
Che molte malattie oggi curabili non avrebbero avuto una ricerca appropriata e oggi sarebbero ancora incurabili.
Il principio utilitaristico teorizzato da Jeremy Bentham tra Sette e Ottocento, di non investire su pochi casi risorse economiche ed umane, ma di preservare gli interessi della maggioranza della popolazione, cozza oggi con la tutela dei diritti umani di tutte le persone viventi e in particolare sul principio fissato dall'articolo 10 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità [“Diritto alla vita”: «Gli Stati Parti riaffermano che il diritto alla vita è connaturato alla persona umana ed adottano tutte le misure necessarie a garantire l’effettivo godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri»].
Si tratta di un’evoluzione delle leggi e degli interventi di tutela dei diritti umani, introdotte nel 1948 dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU. Infatti, il caso di Charlie solleva il seguente tema: a chi deve essere applicata la ricerca, in questo caso medica? 
E questa ricerca vale per tutti gli esseri umani in maniera eguale, o per alcuni le risorse non debbano essere investite perché si tratta di un numero esiguo di individui?

Il secondo argomento, trascurato dagli organi di informazione, è che gli interventi su Charlie sono costosi e applicarli a una vita che non durerà molto (in qualche modo, dunque, “inutile”) è uno “spreco”.
Infatti, dietro la motivazione che si sottoponeva Charlie a una sofferenza inutile, per i tribunali c’era questa motivazione economica, già intravista nella nostra esperienza quotidiana, quando scopriamo che non si investe sulle cure per i pazienti molto anziani, che i trapianti non dovrebbero essere fatti su persone con disabilità intellettive, che i farmaci costosi non possono essere prescrivibili e così via.
È un tema, sollevato di recente anche dai coniugi Gard, quando hanno dichiarato che Charlie morirà perché loro non hanno le risorse economiche per curarlo, che nei prossimi anni diventerà uno dei primi nell'agenda mondiale: se i diritti dipendono dalle risorse, solo chi potrà permettersi cure costose potrà accedere a interventi sanitari, mentre i meno ricchi dovranno accontentarsi di ciò che potrà essere garantito dai servizi sanitari pubblici. 
Però le risorse e la crescita economica non dovrebbero essere al servizio della tutela dei diritti umani di tutti gli esseri umani viventi?

Il diritto alla vita di Charlie, invocato dalla responsabilità genitoriale del papà e della mamma, e da milioni di persone nel mondo, ci riguarda. 
Infatti è bastato che l’Ospedale Bambino Gesù di Roma dicesse «lo voglio curare io» e applicare un protocollo di ricerca su quella patologia, perché si squarciasse il sipario che nascondeva la decisione dei tribunali, rendendo chiaro e meno difendibile il livello di discriminazione nell'accesso ai servizi sanitari cui era sottoposto il bimbo.
Vicende come quelle di Charlie ci riguardano, non solo per le emozioni che suscitano, ma anche per le implicazioni bioetiche che le accompagnano. Ognuno di noi, infatti, potrebbe trovarsi in situazioni vicine a quelle di Charlie e vedersi negate le cure. 
Il mondo non è fatto solo da coloro che vogliono interrompere la propria vita perché la considerano inaccettabile (sul tema dell’eutanasia assistita si dovrebbe riflettere in maniera ben più ampia di quella che appare sui giornali), ma anche da coloro che la vita la vogliono difendere in forma eguale rispetto alle altre persone.



martedì 18 luglio 2017

Insegnanti di sostegno, la beffa dei 47 mila professori "in deroga"



Quarantasettemila insegnanti di sostegno su 150 mila saranno «in deroga» a settembre: ovvero sulla carta non saranno ufficialmente previsti, ma ritenuti necessari a inizio anno scolastico dopo ricorsi delle famiglie e decisioni amministrative dell’ultimo momento. 

È come se fossero prof d’urgenza, che di fatto servono agli alunni disabili, ma in quanto d’urgenza non permettono alcuna programmazione seria, né a vantaggio dei disabili, né dei professori, che finiscono nel tritacarne degli algoritmi ministeriali e vengono spediti anche a centinaia di chilometri di distanza pur potendo occupare posti in maniera continuativa nelle proprie regioni. 
A lanciare l’allarme è l’Osservatorio dei diritti della scuola, che sottolinea che almeno 30 mila insegnanti di sostegno vengono assoldati dopo i ricorsi delle famiglie al Tar: ricorsi dovuti al fatto che, sistematicamente, ai disabili non vengono assegnate tutte le ore di sostegno necessarie allo sviluppo e all’educazione del bambino/ragazzo, e le famiglie sono appunto costrette a ricorrere ai tribunali amministrativi regionali per chiedere un’integrazione, spesso corposa. 

Intendiamo che da 9 ore concesse inizialmente si deve passare a 18, da una «mezza» cattedra ad una intera, per capirci, con un esborso stimato sulle casse dello Stato di 300 milioni di euro. 

L’esborso per lo Stato.
«Le famiglie in caso di accoglimento della richiesta ricevono un giusto risarcimento di 1000 euro per ogni mese di assenza dell’insegnante di sostengo a partire dalla notifica del ricorso: poiché in genere passano almeno tre mesi prima che la decisione venga presa, e poiché ci sono anche le spese legali da sostenere, stimiamo in circa 5 mila euro a famiglia l’esborso statale, che moltiplicato per 30 mila fa appunto 300 milioni», spiega il prof. Leonardo Alagna che ha realizzato lo studio per l’Osservatorio. Cifra destinata a lievitare: se l’anno scorso sono stati 97 mila gli insegnanti di sostegno in organico di diritto, e 130 mila in totale le cattedre assegnate su posti di sostegno, per il 2017 -2018 si prevede una lievitazione a 150 mila posti con 47 mila insegnanti «in deroga». 

Il Sud penalizzato.
Una situazione incresciosa che colpisce soprattutto il Sud, dove si concentrano i due terzi degli insegnanti in deroga. «Non come qualche disinformato scrive perché ci sono medici e neuropsichiatri compiacenti che gonfiano il dato delle certificazione della disabilità- spiega Alagna- ma perché al Sud prima che al Nord i cittadini si sono resi conto delle ingiustizie e hanno cominciato a fare ricorsi al Tar». E anche perché sono stati fissati dei limiti di assegnazione di insegnanti di sostegno che risalgono al 2007, che non sono stati più rivisti e che non possono valere per i numeri aumentati di disabili riconosciuti nel tempo. Facciamo un passo indietro. Quando il governo Letta, col decreto Carrozza, nel 2013 ha deciso le immissioni in ruolo sul sostegno (27 mila) è stato seguito un criterio di ripartizione nazionale: doveva essere rispettato un rapporto tra organico di fatto e organico di diritto pari a circa l’88%. Per semplificarla, su 100 insegnanti di sostegno 88 dovevano essere stabilizzati e gli altri potevano essere precari/supplenti. Ma questo criterio è stato applicato a numeri di organico fissati nel 2007 dal governo, che non rappresentavano la situazione che si era venuta a creare nel 2013, tanto più che non teneva conto proprio delle migliaia di posti in deroga. Così la ripartizione dei posti ha penalizzato soprattutto il Sud, dove i posti in deroga erano di più. 

Il caso Sicilia.
Ad esempio, per fare il caso Sicilia- che è eclatante - il dato di riferimento dell’organico era di 11430 posti, con l’88% si è arrivati a inserire 1500 posti col decreto Carrozza, portando l’organico di diritto da 8500 a 10.020 in tre anni. E non tenendo conto che nel 2013 c’erano già 2 mila posti in deroga. Se si fosse tenuto conto di questi posti, l’organico di diritto siciliano avrebbe dovuto essere di 11.900 posti. Cioè una differenza di 2000 posti che sono esattamente i due terzi degli insegnanti specializzati siciliani deportati successivamente al Nord dalla Buona scuola. In pratica, sulla carta quei posti non c’erano, e quindi quando l’algoritmo ha dovuto distribuire le immissioni in ruolo ha spedito gli insegnanti con decenni di esperienza sul sostegno al Nord. Ma poi di fatto quei posti esistevano eccome, ma ad occuparli sono finiti insegnanti non specializzati, precari, o con meno punteggi nelle graduatorie, che hanno occupato le cattedre rimaste vuote. Perché l’anno scorso è successo anche questo: che per evitare la «deportazione» al Nord è stato concesso ai docenti meridionali stabilizzati dalla Buona Scuola di restare ancora un anno vicino a casa andando ad occupare posti in deroga sul sostegno anche se privi di specializzazione. Un paradosso. Che si ingrandisce di anno in anno: «I posti in deroga oggi sono lievitati a più di 5 mila in Sicilia e conti analoghi si possono fare per tutto il Meridione - denuncia Alagna - in Campania sono circa 6 mila, in Puglia più di 3500, nelle Marche 1000, in Abruzzo 1300 e così via. Lo stesso non vale per le Regioni del Nord, dove i posti in deroga sia in valore assoluto che in termini percentuali rispetto agli alunni sono decisamente inferiori». 

L’emendamento.
Così le immissioni in ruolo sono state altissime al Nord (5824 in Lombardia, 4094 nel Lazio, 2461 nel Veneto), dove non c‘erano così tanti insegnanti di sostegno, basse al Sud dove invece ce n’erano molti che sono stati costretti a trasferirsi per prendere il ruolo. Salvo poi pentirsi quando si sono resi conto che le loro cattedre, che di fatto esistevano, venivano occupate da precari o da chi aveva molti meno punteggi ed era finito in basso nelle graduatorie. «Uno scandalo che ha fatto soffrire migliaia di famiglie con figli con disabilità, negando loro la continuità didattica, e nello stesso tempo aver fatto soffrire professori che dopo anni di precariato sono stati costretti a subire l’allontanamento coatto nelle regioni del Nord, subendo anche un’ondata di insulti e offese da parte dell’opinione pubblica», conclude Alagna. Per provare ad arginare i danni, Articolo 1- Mdp ha presentato alcuni o al Ddl sul Mezzogiorno, chiedendo di riportare i docenti al Sud sulle cattedre reali. «I posti ci sono e bisogna darli a chi ha i titoli giusti: la continuità è fondamentale per gli studenti, soprattutto disabili- sottolinea l’on.Eleonora Cimbro, una delle promotrici- E non è giusto che proprio i docenti più preparati pur di ottenere il posto di lavoro siano stati costretti ad emigrare». 




lunedì 17 luglio 2017

Maltrattavano una malata di Sla, in 9 ai domiciliari. I nomi




Nove persone tra cui un medico, infermieri e operatori socio sanitari della casa di cura “San Vitaliano" di Catanzaro sono stati posti agli arresti domiciliari per maltrattamenti nei confronti di una paziente. 

Gli arresti sono stati eseguiti dalla Squadra Mobile di Catanzaro in seguito ad indagini coordinate dal procuratore capo Nicola Gratteri, dall'aggiunto Vincenzo Luberto e dal sostituto procuratore Stefania Paparazzo e condotte dalla sezione di polizia giudiziaria del Nisa e della Polizia di Stato. 
Il gip Barbara Saccà ha accolto le richieste dell’organo inquirente e ha emesso nove misure cautelari nei confronti dei dipendenti della struttura appartenente al Gruppo Citrigno e specializzata nel trattamento della Sla e delle malattie neuromuscolari. 

Si tratta di Emanuela Caporale, 41 anni, di Lamezia Terme; Denisia Elena Rosu, 39 anni, nata in Romania, residente a Catanzaro; Giacinto Muraca, 38 anni, di Catanzaro; Tonino Bria, 35 anni, nato Cosenza, residente a Luzzi; Antonio Di Bari, 29 anni, di Cosenza; Giovanni Presta, 55 anni, di San Lucido; Donatella Folino Gallo, 29 anni, di Soveria Mannelli; Caterina Ester, 30 anni, nata a Cosenza e residente a Rota Greca; Giuseppe Rotundo, 39 anni, di Catanzaro.
Tra i maltrattamenti che gli infermieri avrebbero inflitto alla donna vi sarebbe l’averla privata di connessione internet, mezzo attraverso il quale aveva la possibilità di comunicare con l’esterno.
Il reato contestato, in concorso tra loro, è quello di maltrattamenti, con le aggravanti dell’aver agito per motivi abbietti, ovvero per dispetto o per ritorsione a causa delle continue richieste di assistenza da parte della paziente, abusando dei poteri e violando i doveri inerenti alla loro funzione.

URLA SILENZIOSE. L’indagine, denominata “Urla Silenziose”, è scaturita a seguito delle numerose denunce sporte da una paziente affetta da Sla che, da circa cinque anni, è completamente paralizzata. 
La donna non ha parenti o amici vicini ma, contrariamente alla maggior parte dei pazienti del reparto, è assolutamente vigile e, stando alle risultanze di indagine, percepisce coscientemente gli atti di scherno posti in essere nei suoi confronti, per cui, mediante l'invio di messaggi email, unico strumento a sua disposizione per comunicare con l’esterno, ha denunciato all'autorità giudiziaria le continue condotte vessatorie di cui è stata vittima. 
Gli investigatori, grazie all'ausilio delle intercettazioni ambientali, hanno potuto riscontrare quanto veniva segnalato dalla paziente. 
È stato possibile rilevare che, comunicano gli inquirenti, nel corso degli ultimi tre anni, la signora subiva, con riprovevole cinismo ed insensibilità, comportamenti persecutori, vessatori, a volte aggravati da rabbiosi insulti, posti in essere da parte di alcuni operatori sanitari del centro San Vitaliano. 

PRIVATA DELLA VOCE E DELLA DIGNITA’. Le gravissime condotte sarebbero state perpetrate nei confronti della paziente spegnendo l’audio del comunicatore, ovvero semplicemente spostandole il monitor, così impedendo al lettore ottico di intercettare le pupille della donna. In tal modo, la paziente veniva privata non solo della sua voce ma anche della possibilità di impiegare il suo tempo attraverso attività quali la lettura, le ricerche su internet, telefonare ad un amico o ad un parente, leggere e scrivere e-mail, senza quel dispositivo elettronico posto di fronte al suo viso, la stessa era costretta, inerme nel suo letto, a fissare una parete, nella piena consapevolezza di non poter comandare al suo corpo altro movimento. 
Queste condotte, risulta dalle indagini, hanno imposto alla paziente un regime di vita doloroso e mortificante, tale da cagionarle frequenti crisi di pianto e da impedirle, a seguito della privazione del dispositivo elettronico, di comunicare in qualsiasi modo, di svolgere le uniche attività possibili per la persona offesa e, soprattutto, comunicare con gli operatori e, finanche, di chiedere assistenza. Risulta dagli atti d’indagine che gli operatori sanitari hanno agito con inciviltà, mancanza del sentimento di umanità e assoluta mancanza di rispetto delle regole dello Stato e in particolare di quelle regole che guidano l’esercizio della professione sanitaria.



venerdì 14 luglio 2017

Disabili in ospedale, un debito di giustizia da saldare


In Italia quasi due strutture sanitarie su tre non hanno un percorso prioritario per i pazienti con disabilità che devono fruire di prestazioni ospedaliere. 
Oltre il 78 per cento degli ospedali non prevede spazi adatti di assistenza per le persone con disabilità intellettiva, motoria e sensoriale. 

Per loro, l’attesa al pronto soccorso, un esame invasivo, la degenza in reparto, si trasformano in un vero e proprio ostacolo se non addirittura in un incubo.
Un problema di organizzazione, ma prima ancora di cultura.

Secondo il filosofo Adriano Pessina, docente di filosofia morale all'Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Centro di bioetica, ci troviamo a livello teorico in un contesto storico saturo di diritti e di affermazioni che riguardano la difesa dell’uguaglianza, del rispetto, della tutela di tutte le persone. 

Nel 2009 è stata ratificata la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. 
Ma tutto ciò non ha rimosso a livello di senso comune quella quotidiana barriera mentale per cui ognuno di noi quando pensa alle persone, ai cittadini, immagina lo stereotipo dell’individuo autonomo, indipendente, che decide di sé ed è padrone della propria vita e delle proprie scelte. Un’immagine che non corrisponde propriamente a “nulla” perché questo individuo è solo un modello teorico in cui nessuno può riconoscersi pienamente.

La disabilità appartiene alla condizione umana e può riguardare in ogni momento ciascuno di noi, eppure noi costruiamo la nostra società, i nostri sistemi sanitari, le nostre pratiche politiche e culturali sulla base di quel modello individualista che abbiamo assimilato e succhiato dalla potenza ideologica del liberalismo radicale. 

E in base a questo “pregiudizio” le persone che non godono di autonomia, le cui capacità mentali possono essere più o meno adeguate rispetto agli standard della “società della prestazione”, che possono, in modo temporaneo o permanente, trovarsi in condizioni di forti limitazioni sensoriali, propriamente “non esistono”: diventano una sorta di categoria di serie B che viene sempre dopo, che ha bisogno di interventi che reputiamo straordinari e valutiamo in termini di maggior costi e di maggiori impegni, mentre per fare operazioni intelligenti basterebbero poche risorse.

Quasi senza volerlo, senza deciderlo, quasi senza saperlo, le nostre barriere mentali diventano anche barriere ambientali. 


Dobbiamo comprendere che le persone con disabilità non hanno bisogni speciali, ma hanno le esigenze di tutti: poter accedere ai servizi sanitari, potersi muovere e orientare nelle stanze, poter comprendere quello che si fa su di loro e con loro. Ciò che è speciale è soltanto il modo con cui rispondere a queste esigenze laddove le persone sono affette da limitazioni cognitive e sensoriali, ciò che occorre adeguare sono i nostri mezzi di comunicazione, i nostri edifici, le nostre prassi quotidiane».

Occorre discutere e ragionare sulla domanda del “chi è l’uomo” e non possiamo ignorare che anche in sanità aleggia il fantasma delle “vite non degne di essere vissute”, espressione che sta diventando criterio di discriminazioni di non poco conto nei confronti di chi si trovi a vivere malattie o disabilità e che può aprire scenari di abbandono terapeutico.

Tutti i processi di cura e di assistenza devono invece essere governati non soltanto dalla competenza scientifica e dall'abilità terapeutica, ma dalla precomprensione del valore della persona umana in tutte le sue concrete e transitorie condizioni di vita e salute. 

Sul terreno di questo umanesimo della fragilità e della giustizia si costruisce il significato stesso della medicina.

mercoledì 12 luglio 2017

Di fronte a Decreti così, l'inclusione non puo' certo andare in ferie!


Questo articolo vuole accendere i riflettori sui principali “buchi” del recente Decreto Attuativo 66/17 della Legge 107/15 (cosiddetta La Buona Scuola) sull'inclusione scolastica. 

E' sotto gli occhi di tutti e specialmente dei più autorevoli esperti di inclusione che, senza alcuna remora, l’hanno definito «una “leggina” che evita solo il peggio», perché questo provvedimento lascia irrisolti alcuni degli atavici “mali scolastici” del sostegno italiano, che il clima spensierato delle vacanze e la canicola estiva devono fare abbassare la guardia e spegnere i riflettori.


Incominciamo dal problema della formazione specifica iniziale e in servizio di tutto il personale scolastico (e non solo dei docenti per il sostegno) sulla didattica inclusiva e sulla pedagogia speciale.
Se infatti la formazione iniziale universitaria specifica per gli insegnanti di sostegno della scuola dell’infanzia e primaria sarà caratterizzata da un aumento dei crediti formativi sulla didattica inclusiva e sulla pedagogia speciale dagli attuali 60 a 120 (art. 12 del Decreto 66/17), lo stesso aumento di crediti non è tuttavia stato previsto dall'art. 10 di un altro Decreto Attuativo della Buona Scuola (59/17, sulle nuove modalità di arruolamento e reclutamento dei docenti), per la formazione specifica sull'inclusione da parte degli insegnanti specializzati della scuola secondaria di primo e secondo grado. 
Inoltre, il loro percorso di inserimento lavorativo – il nuovo e farraginoso triennale FIT (Formazione, Inserimento e Tirocinio) – sarà più incentrato sulla quantità e sul numero dei crediti, che non sulla qualità e sull'efficacia didattica dei contenuti.
Anche la formazione generalizzata di tutti i docenti di ruolo, degli ATA (Ausiliari Tecnici Amministrativi) e dei dirigenti scolastici sulla didattica inclusiva è stata stabilita solo “simbolicamente” dalla Buona Scuola, perché essa – sbagliando – non ne fa loro obbligo.
Alla luce dunque di tutto ciò, il problema sarà ora quello di capire se, con questa “benedetta” neonata Delega sull'inclusione ci sarà un effettivo cambiamento qualitativo. 
La sola assegnazione dell’insegnante di sostegno con un numero congruo di ore all’alunno/studente con disabilità non è sufficiente a garantirne il successo scolastico e formativo, se:
1) La medesima delega sull'inclusione della Buona Scuola fa finta di dimenticarsi che i docenti per il sostegno sono sovente insegnanti in deroga, in “messa a disposizione”, in esubero dalle altre classi di concorso e utilizzati pescando dalle Graduatorie di Circolo e d’Istituto, anche se non specializzati ed abilitati. 
Tale situazione è gravissima e va assolutamente denunciata, perchè l’attuale inefficace e deficitario sistema del sostegno, composto da oltre il 40% di insegnanti specializzati precari e fondato sulla loro appartenenza all'organico, di fatto e non a quello di diritto, si automantenga vergognosamente, “legittimando” le famiglie dei nostri ragazzi a presentare ripetutamente ricorsi alle autorità giudiziarie.
2) La presenza del docente per il sostegno non è affiancata da un contesto veramente “inclusivo”. 
A tal riguardo, la nomina dell’insegnante specializzato -pur rappresentando un sacrosanto diritto assolutamente esigibile dai nostri ragazzi e dalle loro famiglie – da sola rischia di essere quasi inutile e di ingenerare false aspettative nei genitori, portando a ripetere le distorsioni e gli sbagli dell’attuale modello dell’inclusione scolastica, che hanno finito per provocare i deprecabili fenomeni della deresponsabilizzazione dei docenti curricolari rispetto ai loro alunni con disabilità e la perversa delega al solo collega di sostegno dei loro insegnamenti e delle loro valutazioni.

Quello che avrebbe dovuto promuovere il Decreto 66/17, e che colpevolmente non ha fatto, avrebbe dovuto essere invece la promozione di un contesto veramente accogliente e inclusivo, dove il PAI (Piano Annuale per l’Inclusività) potesse essere finalmente parte integrante della progettazione, della didattica e della valutazione delle Istituzioni scolastiche italiane e, dunque, anche dei loro Piani Triennali dell’Offerta Formativa.
Con la delega sull’inclusione, al contrario, non è avvenuto nulla di tutto ciò: i CTS (Centri Territoriali di Supporto) sono scandalosamente scomparsi dalla circolazione (e con loro la possibilità di aprire al loro interno anche “Sportelli Tiflodidattici” per alunni con disabilità visiva). A sostituirli sono arrivate le “ectoplasmatiche” Scuole Polo.
Nessun accenno, inoltre, si è fatto a finanziamenti per servizi exstrascolastici di supporto all’inclusione degli alunni con disabilità (quali potrebbero essere ad esempio i diciassette Centri di Consulenza Tiflodidattica della Federazione Nazionale delle Istituzioni Pro Ciechi e della Biblioteca Italiana per i Ciechi Regina Margherita e gli ex Istituti dei Ciechi). Per non parlare della vexata quaestio della continuità didattica, da tutti invocata, ma quasi mai attuata concretamente a scuola per gli studenti con disabilità.
Rispetto a quest’ultimo spinoso problema, mentre la prima bozza di Decreto (Atto del Governo n. 378) prevedeva un vincolo decennale sul sostegno per gli insegnanti, ora, nel testo definitivo, entrato in vigore il 31 maggio scorso, all’art. 14 il Governo ha deciso di mantenere l’attuale vincolo quinquennale (sul ruolo e non nella stessa scuola), nelle more di superarlo definitivamente, al momento dell’entrata a regime della nuova disciplina della formazione iniziale e del reclutamento degli insegnanti. 
Inoltre, i contratti a tempo determinato potranno poi essere reiterati «a docenti supplenti più volte nel corso dell’anno scolastico successivo». 
Come dire: «Evviva la “supplentite”!».
E ancora, sempre all’art. 14 dello Schema iniziale di Decreto, si è aggiunto nel testo definitivo che «al fine di garantire la continuità didattica durante l’anno scolastico, si applica l’articolo 461 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 297 del 1994»: almeno per tutto l’anno, quindi, l’insegnante di sostegno dovrebbe rimanere lo stesso.
Insomma, il Decreto 66/17 non solo sconfessa la stessa Legge della Buona Scuola, di cui dovrebbe essere un Decreto Attuativo (l’art. 1, comma 181 della Legge 107/15, che traeva origine dalla Proposta di Legge n. 2444 di FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap e FAND-Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità, prevedeva infatti il vincolo del docente per il sostegno all'intero segmento formativo seguito dall'alunno), ma finisce pervicacemente per provocare il perdurare delle attuali criticità del sistema dell’inclusione, a causa delle quali i ragazzi con disabilità sono costretti, ogni anno, a cambiare insegnanti specializzati e a ricominciare sempre tutto da capo, senza una continuità del contesto exstrascolastico, facendo convincere pertanto i loro genitori che l’insegnante specializzato sia l’unica risorsa a disposizione dei loro figli.

In definitiva, la verità è che, senza una funzione e un ruolo ben definiti e una formazione specifica non solo “quantitativa” dei docenti per il sostegno, senza un piano strutturale e a lungo termine di loro assunzione e stabilizzazione, senza investimenti seri ed efficaci sul contesto e sui servizi territoriali exstrascolastici a supporto del processo d’inclusione, e senza alcuna garanzia per gli alunni con disabilità di un’adeguata ed effettiva continuità didattica, nessuna riforma del sostegno potrà mai realisticamente assicurare per ogni ragazzo quelle condizioni di pari opportunità nel raggiungimento del massimo possibile dei traguardi d’istruzione, tanto decantate dalla recente normativa italiana sull’autonomia scolastica e soprattutto dal recente Decreto Attuativo della Buona Scuola.

lunedì 10 luglio 2017

Sclerosi multipla: dalle cellule staminali neurali una scoperta per future terapie


Sulla prestigiosa rivista Nature Chemical Biology è apparsa in questi giorni una pubblicazione a firma di Stefano Pluchino, neurologo e ricercatore, che da diversi anni studia nuove terapie con cellule staminali neurali nel trattamento di condizioni come la sclerosi multipla.
Il suo team, composto da ricercatori italiani (Nunzio Iraci, Edoardo Gaude e Chrsitian Frezza), dal 2010 lavora presso il Wellcome Trust-MRC Stem Cell Institute di Cambridge (UK) dove ha svolto un ruolo essenziale nello sviluppo dei primi studi di fase I con cellule staminali neurali, recentemente iniziati nelle forme progressive di sclerosi multipla.
Le ricerche del gruppo si sono concentrate su un aspetto molto specifico della biologia della cellula: gli exosomi, particelle di dimensioni molto piccole che si formano dalla membrana cellulare e servono a trasportare e scambiare diversi tipi di molecole tra le cellule.
Gli exosomi sono fondamentali nella regolazione del metabolismo cellulare, delle risposte infiammatorie, della metastatizzazione dei tumori. 
Il team del dottor Pluchino, da alcuni anni ormai studia gli exosomi delle cellule staminali neurali perché hanno scoperto che svolgono una funzione importante nei meccanismi di comunicazione tra cellule in condizioni complesse come ad esempio i trapianti.
Sono convinti che il chiarimento di queste dinamiche possa permettere lo sviluppo di protocolli di terapia disegnati attorno alla malattia e attorno al paziente: sono le basi di quella che adesso è nota come precision medicine o medicina di precisione.
Riguardo agli esiti il team citato ha notato che gli exosomi delle cellule staminali neurali si comportano come delle unità metaboliche completamente indipendenti dalla cellula madre e sono quindi in grado di trasportare enzimi metabolici: una funzione che può essere sfruttata per veicolare molecole curative all'interno dell’organismo.
Infatti le staminali quando arrivano nel cervello scambiano exosomi con le cellule vicine, che sono sia del sistema immunitario, sia neuroni.
Questa scoperta può essere tradotta in nuove terapie, poiché le cellule da cui è partito questo studio sono linfociti simili a quelli verso cui sono stati sviluppati i principali farmaci che contrastano la malattia, cioè i medicinali attualmente in uso per le forme a ricadute e remissioni di sclerosi multipla.

La malattia infatti è causata proprio da particolari linfociti (cellule del sistema immunitario) che attaccano il rivestimento delle cellule nervose, distruggendolo progressivamente e impedendo così la comunicazione tra i neuroni.
Estendendo lo studio anche ai linfociti coinvolti nella sclerosi multipla, possiamo immaginare di utilizzare exosomi come delle nanoparticelle naturali in cui incapsulare enzimi e farmaci in generale.

La scoperta che le cellule staminali neurali (attualmente in fase di sperimentazione nelle forme progressive di sclerosi multipla in due studi clinici di fase I) possano veicolare tramite i propri exosomi degli enzimi funzionalmente attivi e selettivi apre la strada alle terapie, dette acellulari, in cui gli exosomi sono utilizzati in alternativa alle cellule staminali.
In futuro si potrebbe addirittura pensare di sviluppare anche nanoparticelle del tutto sintetiche, che mimino le principali funzioni degli exosomi, per incapsulare il farmaco desiderato e immetterlo in vivo nel paziente, nel sito desiderato e alla concentrazione voluta.

domenica 9 luglio 2017

Dopo piu' di 20 anni arriva in Italia un nuovo farmaco per la SLA


Sarà disponibile in Italia il Radicut, nuovo farmaco che ha dimostrato in recenti studi clinici di portare effetti benefici ai pazienti colpiti da Sclerosi Laterale Amiotrofica. 

E’ stato approvato per l’Italia un nuovo farmaco contro la Sclerosi Laterale Amiotrofica. L’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha approvato l’introduzione in Italia del Radicut, nome commerciale dell’edaravone, dando riscontro positivo alla richiesta formale avanzata da AISLA, Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica.
Con questo via libera, il nostro Paese diventa il primo in Europa ad avere un nuovo farmaco sulla SLA in commercio dopo più di vent’anni. Infatti, l’unico farmaco approvato per la SLA, nel 1995, era stato il Rilutek (Riluzolo) che ha dimostrato una modesta efficacia nel prolungare di pochi mesi la sopravvivenza dei pazienti. Il Radicut risulta essere in grado di rallentare moderatamente la degenerazione motoria causata della malattia.

I PRIMI STUDI EGLI EFFETTI
Il Radicut, inizialmente messo a punto in Giappone per il trattamento degli ictus, è stato oggetto negli anni di ripetuti studi sulla SLA. I primi risultati non furono incoraggianti: non registravano, di fatto, alcuna differenza significativa tra i pazienti trattati con l’edaravone e quelli trattati con il placebo. In altri casi, addirittura, si sono verificati importanti effetti collaterali. Analizzando i dati, tuttavia, i ricercatori hanno notato che una determinata popolazione esaminata mostrava una risposta interessante al farmaco ed è su questa specifica tipologia di pazienti che si sono concentrate le sperimentazioni successive.

EFFETTI POSITIVI SU ALCUNE CATEGORIE DI PAZIENTI. 
Il recente studio condotto negli Stati Uniti su 137 pazienti colpiti da SLA e pubblicato su Lancet Neurology a maggio di quest’anno, lo ha confermato. 
Il Radicut induce un lieve rallentamento nel peggioramento dello stato funzionale in persone con specifiche caratteristiche quali:
•la comparsa della malattia da non oltre due anni,
•una disabilità moderata
•una buona funzionalità respiratoria.
Per tale ragione il farmaco potrà essere prescritto dal neurologo di riferimento esclusivamente alle persone con questo specifico quadro clinico. In Italia, su una popolazione di circa 6.000 persone affette da SLA, si stima che i pazienti inizialmente idonei siano circa 1.600. 


FARMACO TOTALMENTE A CARICO DEL SSN. 
Con la determina del Direttore generale del 28 giugno 2017, n. 1224, pubblicata il 3 luglio nella Gazzetta Ufficiale n. 153, AIFA ha inserito il Radicut nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale, ai sensi della Legge 23 dicembre 1996, n. 648, per il trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica. Tale farmaco dunque è stato inserito tra i cosiddetti “medicinali innovativi” per il trattamento terapeutico di patologie che, come la SLA, sono prive di adeguta cura. Si tratta di farmaci già in commercio in altri Stati ma non sul territorio nazionale perché, pur avendo superato tutte le prove relative alla sicurezza e alla sopravvivenza, sono ancora soggetti a sperimentazione clinica.

PRESCRIZIONE E SOMMINISTRAZIONE. 
Come detto, la prescrizione del farmaco può essere fatta solo da parte del neurologo ed esclusivamente per i pazienti aventi le idonee caratteristiche cliniche (la comparsa della malattia da non oltre due anni, una disabilità moderata e, infine, una buona funzionalità respiratoria). Il trattamento prevede somministrazioni per infusioni endovena giornaliere per due settimane consecutive e poi ad intervalli di due settimane. Vista la complessità della somministrazione e considerate le possibili difficoltà di spostamento dei pazienti, il Radicut è stato riconosciuto come farmaco di fascia H, la cui somministrazione è limitata agli ospedali e alle eventuali strutture analoghe che saranno individuate dalle Regioni che dovranno mettere in atto modalità prescrittive ed erogative idonee.

TEMPI DI DISTRIBUZIONE. 
Il Radicut oggi è in uso in Giappone e Corea del Sud, mentre una sperimentazione con edaravone a somministrazione per via orale è in corso in Olanda. Nel maggio del 2017 la FDA, Food and Drug Administration, ne ha autorizzato l’uso negli Stati Uniti. La decisione di AIFA, avvenuta dopo un’approfondita e attenta valutazione delle evidenze scientifiche disponibili e pubblicate su Lancet Neurology a maggio di quest’anno, ha fatto seguito alla richiesta da parte di AISLA di rendere disponibile il Radicut agli ammalati italiani. 
Perché il Radicut sia disponibile in Italia è necessario attendere il completamento delle procedure di importazione del farmaco dal Giappone dove è prodotto dall’azienda Mitsubishi Tanabe. L’importazione e la distribuzione, infatti, dovranno comunque osservare i criteri di certificazione definiti da EMA, European Medicines Agency. AIFA rassicura che sono stati attivati tutti i canali di massima priorità .