In questo articolo, affrontiamo
una tematica, che, purtroppo sembra scontata, ma, invece, è indispensabile, quando si fa parla di disabilità e quali
sono le parole corrette da usare.
"Disabile",
"Handicappato", "Invalido", "Inabile",
"Diversamente abile"…
Capita spesso che le persone si
sentano in difficoltà perché non sanno le parole che possono usare riguardo la
disabilità, per evitare di offendere, infastidire o più semplicemente fare
brutte figure.
C’è chi si rintana nel “politicamente
corretto” per sentirsi al sicuro, e chi invece scade in quel pietismo e
buonismo che di positivo non hanno niente: in entrambi i casi la disabilità
viene trasmessa in modo negativo, alimentando stereotipi e pregiudizi ma anche
sminuendo la dignità e il valore della persona stessa, anziché abbattere
barriere sociali e culturali.
Pertanto questo articolo vuole
essere fosse una sorta di “manifesto” sulla terminologia corretta della
disabilità, con la speranza di chiarire una volta per tutte come è meglio
relazionarci ad essa.
Perché è vero che, le buone intenzioni che stanno dietro a certe
frasi hanno il loro valore, ma è altrettanto vero che (come la sociologia ci insegna) se cambiamo il modo di chiamare
qualcosa, quel qualcosa cambia e quindi cambierà anche il modo attraverso il
quale le persone si rapportano ad esso.
Insomma, le parole sono importanti: usiamole
nel modo giusto e contribuiremo a creare una società più inclusiva!
Punto di partenza: un po' di definizioni.
Secondo l'Organizzazione Mondiale
della Sanità (1980), tramite la
classificazione ICIDH (International
Classification of Impairments Disabilities and Handicaps), dobbiamo
distinguere:
– Menomazione (impairment):
“perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica,
fisiologica o anatomica”;
– Disabilità (disability):
“qualsiasi limitazione o perdita (conseguente
a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o
nell’ampiezza considerati normali per un essere umano”;
– Handicap: “condizione di
svantaggio, conseguente a una menomazione o a una disabilità, che in un certo
soggetto limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale soggetto
in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali”.
Nonostante il termine
"menomazione" sia oggi considerato vecchio ed offensivo, è chiaro da
queste tre definizioni che l’handicap sia visto già negli anni '80 come una
condizione soggettiva che potrebbe non esistere se venissero eliminate le
barriere architettoniche e sociali (i fattori socioculturali, appunto).
Ma è nel 1999 che l'OMS compie un
grande passo avanti conferendo un'accezione "positiva" al termine
della disabilità, estendendolo a tutti e dandogli un valore universale, ma
soprattutto scegliendo coraggiosamente di eliminare il termine "Handicap"
dai documenti ufficiali e internazionali, attraverso la "Classificazione
Internazionale delle Menomazioni, delle Attività personali (ex-Disabilità) e
della Partecipazione sociale (ex handicap
o svantaggio esistenziale)" (ICIDH-2).
Il 21 Maggio del 2001, infine,
sempre l'OMS realizza cinque nuove classificazioni:
– Funzioni corporee (funzioni fisiologiche dei sistemi corporei,
compreso quelle psicologiche);
– Strutture corporee (parti anatomiche del corpo);
– Attività (compiere azioni o svolgere compiti);
– Partecipazione (coinvolgimento in attività quotidiane);
– Fattori ambientali (contesto fisico e sociale, atteggiamenti e
cultura che possono incidere sulla vita dell'individuo, la sua inclusione e
partecipazione, le sue possibilità).
Questa classificazione ICF
sostituisce quella dell'ICIDH, diventando così il nuovo standard di
classificazione dello stato di malattia e di salute: il fine è quello di
cogliere le difficoltà nel contesto socioculturale, descrivendo così la
quotidianità delle persone in relazione all'ambiente circostante,
evidenziandone l'unicità e la globalità e non tanto il fatto che abbiano una
disabilità fisica o mentale.
Successivamente, secondo la
Commissione Europea Delivering eAccessibility (26/9/2002): "La disabilità è l'insieme di
condizioni potenzialmente restrittive derivanti da un fallimento della società
nel soddisfare i bisogni delle persone e nel consentire loro di mettere a
frutto le proprie capacità".
Adesso entriamo nel vivo della
terminologia…
Regola numero 1: malattia, sofferenza e costrizione.
Iniziamo con un concetto
fondamentale: la disabilità non è una malattia, bensì una
"condizione" momentanea nella quale non riusciamo a fare qualcosa,
superabile se mettessimo a disposizione gli strumenti giusti (una carrozzina, un computer, un ascensore,
un servizio di assistenza…).
Per questo motivo sono
assolutamente bandite tutte quelle parole (o
figure) che rimandano a un concetto di disabilità come sofferenza e dolore,
impedimento o costrizione, incapacità.
È sbagliato dire:
– Affetto da… Malato di… Soffre
di… (la disabilità non è una malattia ma
una condizione che dipende soprattutto dall'interazione con l'ambiente);
È corretto dire:
– Con (disabilità, sindrome di…).
È sbagliato dire:
– Menomato/Handicappato (termini
vecchi, diventati oggi offensivi ed esclusi anche dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità già nel 1999);
– Portatore di... ("portare" indica un vincolo e
quindi svantaggio, ma io non "porto" la mia disabilità – che tra
l'altro, chi porta qualcosa ha la possibilità di lasciarla quando vuole, cosa che
in questo caso non è possibile).
È corretto dire:
– Condizione/condizione genetica
(stato momentaneo che tutti viviamo in
qualche aspetto della vita quotidiana e pratica, ma che può essere risolto con
i giusti strumenti – chi è miope può vedere bene con gli occhiali e chi non sa
nuotare può stare a galla con i braccioli, anche quelle sono delle disabilità).
È sbagliato dire:
–
Costretto/Imprigionato/Confinato sulla sedia a rotelle (la carrozzina è un aiuto, uno strumento paragonabile ad un paio di scarpe
in grado di rendere liberi, e non certo un peso che costringe, opprime e crea
sofferenza);
È corretto dire:
– Su sedia a rotelle/che utilizza
la carrozzina per spostarsi.
Insomma, basterebbe semplicemente
chiamare le cose con il loro nome senza esprimersi con un linguaggio
emotivamente forte o sensazionalistico (tipico,
ad esempio, del giornalismo per catturare l'attenzione e commuovere i lettori),
che in fin dei conti l'empatia andrebbe dimostrata con i fatti e non con le
parole.
Anche quando parliamo di
disabilità è sempre bene specificare di che tipo si tratta, se possibile, per
essere meno generici e superficiali.
È sbagliato dire:
– portatore di una disabilità;
È corretto dire:
– persona con una ridotta
funzionalità degli arti inferiori;
E sebbene "i disabili"
sia tollerabile per il plurale, indicando un gruppo di persone con disabilità,
quando ci si rivolge ad una singola persona dovremmo chiamarla per nome: vi è
capitato di sentire "il signor disabile" o "il signor Mario
Rossi"? Spero vivamente la seconda. Le etichette lasciamole ai quaderni.
Regola numero 2: la persona prima di tutto.
L'errore nel quale inciampano
molti è quello di evidenziare la disabilità anziché anteporre la persona: un
soggetto, anche se disabile, non è certo la sua carrozzina.
Rappresentare una persona con
quattro ruote anziché con un nome, un carattere, dei sentimenti, pregi e
difetti, significa sminuirla e mancarle di rispetto.
Ecco perché come appellativo
sarebbe bene evitare certi termini.
È sbagliato dire:
– Un disabile/Un handicappato/Un
sordo/Un cieco (ho un nome, usalo!), per non parlare poi dei termini
fantasiosi che ho sentito, inventati da chi cercava di compensare la propria
ignoranza, come diversabile;
È corretto:
– Una persona con disabilità/Una
persona cieca o sorda (la persona viene
prima di tutto, mentre la disabilità è una caratteristica della persona, non
una malattia).
È sbagliato dire:
– Ritardato/handicappato mentale
oppure Down (non si identifica una
persona con la sua disabilità o la sua sindrome) e mongoloide (accezione vecchia e oggi dispregiativa, che
poi non c'è nemmeno relazione tra la popolazione mongola e le persone con
sindrome di Down e si tratta di un paragone che un tempo veniva fatto per pura
arretratezza culturale);
È corretto dire:
– Persona con disabilità
intellettiva oppure persona con sindrome di Down (la disabilità o la sindrome caratterizzano le persone ma di certo non
le annullano sostituendosi ad esse).
Regola numero 3: politicamente corretto e disabilità sensoriali.
Utilizzare il termine
"diversamente" non addolcisce un bel niente, anzi, crea ulteriore
discriminazione.
Dire "diversamente
abile" o "con diverse abilità" lascia intendere che qualcuno sia
comunque "diverso" dagli altri e quindi, in un certo senso, inferiore
(tra l'altro oggi l'avverbio
"diversamente" indica, nell'immaginario comune, l'opposto di
qualcosa, per esempio qualcuno "diversamente onesto" è
"disonesto").
Anche il prefisso "non"
dietro qualcosa è scorretto.
La stessa comunità dei sordi, ad
esempio, si dichiara appunto "sorda" anziché "non-udente",
così come i ciechi si auto definiscono "ciechi" anziché
"non-vedenti".
Può sembrare brutale, forse, per
voi, ma vi garantisco che se mi chiamassero "non-deambulante" mi
sentirei preso in giro e non poco.
Dire “non vedente” o “non udente”
invece di “cieco” o “sordo” o “zoppo” non migliora la condizione di chi vive
una disabilità sensoriale, per cui il politicamente corretto è assolutamente da
evitare.
A tal proposito, una curiosità:
con la legge n. 95 del 2006, all'articolo 1, si sostituisce la parola
"sordomuto" con quella di “sordo”.
Le alternative corrette, come per
“disabile”, sono quindi: persona con disabilità sensoriale, persona con
disabilità visiva (o disabili visivi),
persona con disabilità uditiva, persona con deficit visivo, persona con deficit
uditivo.
È sbagliato dire:
– diversamente abile/con diverse
abilità;
– non vedente/non udente/non
deambulante;
È corretto dire:
– persona con disabilità;
– cieco/sordo/persona con
disabilità visiva/persona con disabilità uditiva/persona con cecità/persona con
sordità.
Insomma, in entrambi i casi, sia
in quello del "diversamente abile" che in quello del
"non-qualcosa", si sottende un'accortezza ed una premura dal sapore
pietistico e compassionevole, un occhio di riguardo del quale non abbiamo
bisogno se vogliamo trattare in modo spontaneo un disabile, al pari degli
altri.
Molto meglio un secco
"disabile", che è comunque chiaro e preciso, piuttosto che girare intorno
alla disabilità per paura di offendere e urtare la sensibilità.
La discriminazione, in fin dei
conti, passa anche da questo.
E se sono le "comunità"
dei diretti interessati a dichiarare questo un motivo c'è, fidatevi e
ascoltatele.
Regola numero 4: i "normodotati" non esistono.
Così come ognuno di noi non sa
fare qualcosa (chi non sa nuotare, chi
non sa suonare uno strumento e chi invece è negato a cucinare), tutti noi
siamo bravi in qualcos'altro di diverso.
Ci sono quindi delle disabilità
ma anche delle abilità in ogni persona.
Ecco perché dobbiamo stare
attenti nel definire chi non ha una disabilità evidente.
Facciamo un breve schema…
È sbagliato dire:
– normali: perché implica che gli
altri non siano normali (quello di
"normalità" è un concetto davvero impossibile da definire, una
pretesa sciocca);
– normodotati: perché implica che
gli altri siano ipodotati;
– abili: perché implica che gli
altri siano inabili.
È corretto dire:
– "normodotati" o
"cosiddetti normodotati": mettere delle semplici virgolette può
sembrare stupido, eppure fa capire il concetto sottolineando comunque che il
termine “normodotati” è scorretto;
– temporaneamente “normodotati”
(da TAB – Temporaly Abled Bodied): rarissimo, soprattutto nell'uso comune, ma è
bene ricordarlo perché evidenzia il fatto che una disabilità non sia
necessariamente congenita ma anche conseguente ad una malattia o un infortunio.
Regola numero 5: la disabilità come insulto.
Inutile dire che se la disabilità
non deve avere in alcun modo una connotazione negativa, usare i termini che
fanno riferimento alla disabilità come insulto è quanto di più stupido ci possa
essere.
Lottiamo ogni giorno per ottenere
una società inclusiva e per vedere riconosciuti i diritti più scontati (poter vivere da soli, spostarsi in autobus,
andare all'università, prendersi una vacanza…), ma fintanto che
continueremo ad offendere dando del "mongolide" o
"handicappato" a qualcuno, alimentando discriminazione, non faremo
altro che calpestare il futuro di tanti ragazzi che ogni giorno vengono
relegati ai margini e messi all'ombra della superficialità.
Direste mai a qualcuno che vi sta
antipatico "sei proprio un Mario Rossi!!"? Non penso, anche perché il
buon Mario non ne sarebbe felice. Quindi perché dare di "disabile" a
qualcuno, usando un'intera categoria che, invece, è probabilmente abile da
capire un concetto così semplice?
Tiriamo le conclusioni…
•La disabilità non è una
malattia, non è la disabilità a provocare sofferenza ma l'impossibilità di fare
certe cose quando ci scontriamo con un contesto sfavorevole.
Evitiamo un linguaggio
compassionevole e sensazionalistico: niente "costretto sulla
carrozzina" (si dice "persona che si sposta in carrozzina"),
"affetto da…", "soffre di…" (si dice "persona
con…"), e altro ancora.
•Evidenziare e anteporre la
"persona", non la disabilità: io non sono la mia carrozzina, per cui
non chiamarmi "disabile" ma "Giovanni", al massimo "Giovanni,
un ragazzo con disabilità".
•Se non vogliamo discriminare
dobbiamo parlare di disabilità in modo spontaneo e diretto, chiamando le cose
col loro nome senza girarci intorno e senza addolcire con il politicamente
corretto. Niente "diversamente qualcosa" (es: diversamente abile) e niente "non qualcosa" (es: non vedente): si dice cieco, sordo,
persona con disabilità.
•Quello di "normalità"
è un concetto che non significa niente, di conseguenza i
"normodotati" non esistono: siamo tutti disabili o particolarmente
abili in qualcosa.
•Usare la disabilità come insulto
è stupido: se appelli qualcuno come "disabile!", "handicappato!",
"cerebroleso!" o peggio ancora "mongoloide!" (termine vecchio ed offensivo) non sei
una bella persona.
Concludendo, usare i termini giusti e precisi, senza
alimentare pietismo o il politicamente corretto, contribuisce ad agire in modo
più spontaneo e naturale, e quindi decisamente migliore.
E chissà, magari il giorno in cui
la disabilità non verrà più percepita dallo sguardo delle persone arriverà
davvero presto.
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