In Italia quasi due strutture sanitarie su tre non hanno un percorso
prioritario per i pazienti con disabilità che devono fruire di prestazioni
ospedaliere.
Oltre il 78 per cento degli ospedali non prevede spazi adatti di
assistenza per le persone con disabilità intellettiva, motoria e sensoriale.
Per loro, l’attesa al pronto soccorso, un esame invasivo, la degenza in
reparto, si trasformano in un vero e proprio ostacolo se non addirittura in un
incubo.
Un problema di organizzazione, ma prima ancora di cultura.
Secondo il filosofo Adriano Pessina, docente di filosofia morale all'Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Centro di bioetica, ci troviamo a livello teorico in un contesto storico saturo di diritti e di
affermazioni che riguardano la difesa dell’uguaglianza, del rispetto, della
tutela di tutte le persone.
Nel 2009 è stata ratificata la Convenzione Onu sui diritti
delle persone con disabilità.
Ma tutto ciò non ha rimosso a livello di senso
comune quella quotidiana barriera mentale per cui ognuno di noi quando pensa
alle persone, ai cittadini, immagina lo stereotipo dell’individuo autonomo,
indipendente, che decide di sé ed è padrone della propria vita e delle proprie
scelte. Un’immagine che non corrisponde propriamente a “nulla” perché questo
individuo è solo un modello teorico in cui nessuno può riconoscersi
pienamente.
La disabilità appartiene alla condizione umana e può riguardare in ogni
momento ciascuno di noi, eppure noi costruiamo la nostra società, i nostri
sistemi sanitari, le nostre pratiche politiche e culturali sulla base di quel
modello individualista che abbiamo assimilato e succhiato dalla potenza
ideologica del liberalismo radicale.
E in base a questo “pregiudizio” le
persone che non godono di autonomia, le cui capacità mentali possono essere più
o meno adeguate rispetto agli standard della “società della prestazione”, che
possono, in modo temporaneo o permanente, trovarsi in condizioni di forti
limitazioni sensoriali, propriamente “non esistono”: diventano una sorta di
categoria di serie B che viene sempre dopo, che ha bisogno di interventi che
reputiamo straordinari e valutiamo in termini di maggior costi e di maggiori
impegni, mentre per fare operazioni intelligenti basterebbero poche risorse.
Quasi senza volerlo, senza deciderlo, quasi senza saperlo, le nostre
barriere mentali diventano anche barriere ambientali.
Dobbiamo comprendere che
le persone con disabilità non hanno bisogni speciali, ma hanno le esigenze di
tutti: poter accedere ai servizi sanitari, potersi muovere e orientare nelle
stanze, poter comprendere quello che si fa su di loro e con loro. Ciò che è
speciale è soltanto il modo con cui rispondere a queste esigenze laddove le
persone sono affette da limitazioni cognitive e sensoriali, ciò che occorre
adeguare sono i nostri mezzi di comunicazione, i nostri edifici, le nostre
prassi quotidiane».
Occorre discutere e ragionare sulla domanda
del “chi è l’uomo” e non possiamo ignorare che anche in sanità aleggia il
fantasma delle “vite non degne di essere vissute”, espressione che sta
diventando criterio di discriminazioni di non poco conto nei confronti di chi
si trovi a vivere malattie o disabilità e che può aprire scenari di abbandono
terapeutico.
Tutti i processi di cura e di assistenza devono invece essere governati non
soltanto dalla competenza scientifica e dall'abilità terapeutica, ma dalla
precomprensione del valore della persona umana in tutte le sue concrete e
transitorie condizioni di vita e salute.
Sul terreno di questo umanesimo della
fragilità e della giustizia si costruisce il significato stesso della
medicina.
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