E' stato dimostrato che la neurodiversità alla base di alcuni disturbi, come
l'autismo e l'ADHD, determina anche dei vantaggi e non solo deficit.
Negli anni ’90 è nato un nuovo termine all'interno dei movimenti per i diritti
delle persone autistiche: neurodiversità.
Il termine fu utilizzato per la prima
volta dalla sociologa australiana, con sindrome di Asperger, Judy Singer alla
fine del 1990.
Il suo intento era quello di spostare l’attenzione sui modi
atipici di imparare, pensare ed elaborare le informazioni che caratterizzano
queste condizioni invece delle solite definizioni che si soffermano
esclusivamente su deficit, disturbi e menomazioni.
Neurodiversità: semplice variazione umana o segno di patologia?
Dal 1889, a Sèvres, nei dintorni di Parigi, nei sotterranei del Bureau
international des poids et mesures (in italiano, ufficio internazionale dei
pesi e delle misure), in una stanza blindata e sotto tre campane di vetro, si
trova custodito un cilindro metallico chiamato Grand Kilo.
Esso rappresenta lo
standard mondiale del chilogrammo e a esso fanno riferimento tutte le bilance
dei Paesi che lo impiegano come unità di misura della massa.
Per quanto
riguarda il cervello umano non esiste uno standard, un prototipo mondiale al quale
devono essere confrontati tutti gli altri cervelli umani.
Quindi com’è possibile decidere se il cervello o la mente di un individuo è
normale o anormale?
Indubbiamente nel mondo psichiatrico esistono molti
tentativi di classificazione dei disturbi mentali, ma quando si tratta di
condizioni come l’Autismo, il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività
(DDAI, in inglese ADHD), la Dislessia e i Disturbi Specifici di Apprendimento
(DSA) sembra che vi sia una sostanziale incertezza su quale sia la soglia critica
che permette di definire un comportamento con una base neurologica, come una
normale variazione umana o come segno di patologia (Armstrong, 2015).
Uno dei motivi di questa ambiguità è l’emergere negli ultimi due decenni di
studi che suggeriscono che molti disturbi del cervello o della mente si
caratterizzano sia di punti di forza che di debolezza.
Le persone con diagnosi
di disturbo dello spettro autistico, ad esempio, sembrano avere punti di forza
legati al lavoro con i sistemi informatici (ad esempio, i linguaggi di
programmazione e i sistemi matematici) e si rilevano migliori rispetto a
soggetti non autistici nell'individuare piccoli dettagli in modelli complessi.
Inoltre, ottengono punteggi significativamente
migliori nel test di intelligenza logico-matematico Matrici di Raven rispetto a
quelli ottenuti alla Wechsler Adult Intelligence Scale.
Uno dei risvolti pratici di queste particolari abilità è rappresentato dalla
scelta di molte aziende che operano in ambito tecnologico di assumere persone
autistiche per mansioni lavorative che richiedono abilità di organizzazione e
di sequenziamento come la scrittura di manuali informatici, la gestione di
database e la ricerca di errori nei codici informatici.
Altri
studi hanno evidenziato le notevoli abilità visuo-spaziali che possono
possedere i dislessici, tra cui la capacità di individuare oggetti nascosti e l’abilità di percepire informazioni visive in modo
più rapido ed efficiente rispetto ai non dislessici.
Queste abilità possono rivelarsi molto vantaggiose in lavori che richiedono il
pensiero tridimensionale, come l’astrofisica, la biologia molecolare, la
genetica e l’ingegneria.
I ricercatori hanno osservato che i soggetti con Disturbo da Deficit di
Attenzione/Iperattività (DDAI) possiedono livelli di creatività e innovazione
maggiori rispetto a persone di pari età e scolarità non DDAI.
Esistono, poi, numerose testimonianze di persone che hanno raggiunto un
enorme successo; tra i dislessici ricordiamo il celebre Steve Jobs che ha
rivoluzionato il mondo della tecnologia e Richard Branson leader del colosso
Virgin che ha definito la sua Dislessia “un vantaggio”; per quanto riguarda lo
spettro autistico ricordiamo l’attore canadese Dan Aykroyd e la ricercatrice e
blogger Michelle Dawson, una delle ricercatrici più importanti nell’ambito
dell’autismo; per quanto riguarda il DDAI, infine, ricordiamo il famosissimo
attore Jim Carrey e l’imprenditore brasiliano-statunitense David Neeleman
fondatore di quattro compagnie aeree.
I vantaggi evolutivi della psicopatologia.
Tali punti di forza possono spiegare da un punto di vista evolutivo il motivo
per cui questi disturbi siano ancora nel pool genico. Alcuni scienziati
suggeriscono che la psicopatologia talvolta può portare con sé specifici
vantaggi evolutivi, nel passato, così come nel presente.
Le capacità organizzative delle persone con disturbo dello spettro autistico
potrebbero essersi rivelate vantaggiose e adatte alla sopravvivenza degli
esseri umani preistorici.
Come ipotizza in modo provocatorio un attivista
appartenente al movimento per i diritti delle persone autistiche al New York
Magazine nel 2008: “A realizzare la prima lancia di pietra probabilmente è
stato un giovane con autismo ad alto funzionamento e non uno tra quelli con
spiccate doti sociali soliti chiacchierare intorno al fuoco”.
Allo stesso modo, l’abilità di pensare per immagini e il pensiero
tridimensionale evidenziati in alcuni dislessici potrebbero essere stati
estremamente utili nelle culture preletterate per la progettazione di
strumenti, per tracciare i percorsi di caccia e la costruzione di ripari.
La Dislessia e i DSA si prestano molto bene per comprendere quanto spesso
questi disturbi rappresentino artefatti della società.
La Dislessia non è una
disabilità, ma una differenza nello stile di apprendimento. Le persone con
Dislessia hanno molte difficoltà nell'apprendimento e nell'automatizzazione della lettura, pertanto, faticano nel corso degli studi scolastici in quanto la
società odierna impone la lettura come unico (o quasi) strumento di
apprendimento.
Se pensiamo alle società preletterate, quando il sapere era
veicolato soprattutto per via orale, la Dislessia non aveva modo di emergere e
soprattutto non rappresentava un ostacolo alla sopravvivenza e alla riuscita
personale! Infine, possiamo ipotizzare che i sintomi principali del DDAI, tra
cui l’iperattività, la facile distraibilità e l’impulsività, potevano
rappresentare tratti estremamente adattativi e funzionali alle società
preistoriche nelle quali le abilità di caccia e di ricerca di cibo, la velocità
di reazione agli stimoli ambientali minacciosi e l’abilità di muoversi
rapidamente potevano contribuire allo sviluppo e alla prosperità della comunità
stessa.
Neurodiversità: le qualità delle persone neurodiverse.
L’insieme di questi studi dovrebbe suggerire un approccio più giudizioso al
trattamento di queste particolari condizioni.
Una possibile soluzione potrebbe
essere quella di sostituire i termini “disabilità”, “disturbo” o, peggio,
“malattia” con il concetto di “diversità” che permette di tenere in considerazione
sia i punti di forza che di debolezza, e abbracciando l’idea che queste
“variazioni umane” possono essere vantaggiose in sé e per sé (Armstrong, 2015).
A tal fine, negli anni ’90 è nato un nuovo termine all’interno dei movimenti
per i diritti delle persone autistiche: neurodiversità.
Il termine fu utilizzato per la prima volta dalla sociologa australiana, con
sindrome di Asperger, Judy Singer alla fine del 1990. Il suo intento era quello
di spostare l’attenzione sui modi atipici di imparare, pensare ed elaborare le
informazioni che caratterizzano queste condizioni invece delle solite
definizioni che si soffermano esclusivamente su deficit, disturbi e
menomazioni. Con questa nuova definizione la sociologa ha voluto evidenziare le
attitudini, le qualità e le capacità delle persone neurodiverse con la speranza
che le differenze neurologiche venissero riconosciute semplicemente come
“variazioni umane”. Richiamando termini positivi, come la biodiversità e la
diversità culturale, il suo neologismo ha richiamato l’attenzione sul fatto che
un funzionamento cerebrale atipico può portare allo sviluppo di competenze e
attitudini insolite. A proposito dei disturbi dello spettro autistico, in
un’intervista rilasciata al giornalista Andrew Solomon nel 2008, Judy Singer
spiega: “Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori
capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone
neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento
femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali”.
Un modo per capire la neurodiversità è pensare che solo perché un computer non
usa Windows come sistema operativo non significa che non funzioni
correttamente.
Non tutte le caratteristiche atipiche dei ‘sistemi operativi
umani’ sono difetti. Il termine neurodiverso si riferisce all'organizzazione strutturale del cervello; un cervello neurodiverso possiede una struttura
cerebrale atipica che implica un modo differente di elaborare le informazioni,
un modo differente non patologico! Per quanto riguarda i mezzi di stampa, il
termine neurodiversità fece la sua prima apparizione nel 1998 grazie ad un
articolo del giornalista Harvey Blume pubblicato sulla rivista Wired Hot Wired,
nella sezione Atlantic.
Blume dichiarò: “la neurodiversità può essere
altrettanto cruciale per il genere umano quanto la biodiversità per la vita in
generale.
Chi può dire quale tipo di cablaggio si rivelerà il migliore in un
dato momento?
La cibernetica e l’informatica, per esempio, potrebbero favorire
un’organizzazione ‘autistica’ della mente“.
Assumere questa
posizione aiuta a comprendere perché le persone neurodiverse sono spesso
disoccupate o demansionate; le aziende sono riluttanti ad assumere lavoratori
che guardano, agiscono, e comunicano in modi non-neurotipici, usando una
tastiera e software di sintesi vocale per esprimere se stessi, piuttosto che
chiacchierare intorno ad una macchinetta del caffè!
Da allora, l’uso del termine neurodiversità ha continuato a crescere anche al
di là del movimento per i diritti delle persone autistiche, nell'ambito degli
studi sulla disabilità e sulle modalità educative speciali, nell'ambito lavorativo, ma anche in ambito sanitario e nelle istituzioni pubbliche.
Questo,
tuttavia, è vero se prendiamo in considerazione Paesi come il Regno Unito e gli
Stati Uniti, mentre in Italia la conoscenza e la diffusione del termine
neurodiversità è praticamente nulla!
In questi anni di ricerche il mondo scientifico, mosso dall'esigenza di
sostenere queste persone nel corso delle varie tappe di vita, si è soffermato
soprattutto sugli aspetti negativi legati a queste condizioni contribuendo a
diffondere l’idea che queste persone rappresentino una categoria “debole”,
bisognosa di tutele e di sostegno da parte delle istituzioni.
Questa visione,
tuttavia, rappresenta solo un lato della medaglia. Adottare il concetto di
neurodiversità potrebbe contribuire a diffondere un’idea più precisa di queste
condizioni che tenga conto sia dei sui punti di forza che di debolezza e
favorire, quindi, il successo e la realizzazione personale di queste persone.
Essere neurodiversi non rappresenta di per sé un ostacolo al successo personale
e professionale. E’ la scarsa comprensione del fenomeno e il mancato sostegno
ad impedire la crescita di queste persone e ciò costituisce una perdita netta
per l’intera società.
E’ solo grazie alla diffusione di una conoscenza più
precisa e all'intervento delle nostre istituzioni che potremo considerare
queste persone non solo individui da tutelare, ma soprattutto talenti da non
sprecare e l’adozione del termine neurodiversità sembra proprio un ottimo punto
di partenza!
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